Quasi
epigono di Kerouac nel suo periodo di ritiro spirituale/artistico, Kim Ki-duk è
immerso nella natura e vive in maniera molto semplice in una baracca (o in una
tenda all'interno della baracca); come lo scrittore americano si guarda
attorno, taglia la legna, accende la stufa, mangia, si ubriaca, soprattutto
pensa. Poi la confessione, la biografia necessariamente parziale (in entrambi i
sensi) e capiamo che il ritiro è più inevitabile che voluto. Il suo soliloquio
spontaneo (apparentemente dialogo fra lui e un altro lui, lui e la sua ombra,
lui e noi) cattura, conquista. Non c'è più bisogno del film, questo è già un
film senza esserlo. Kim Ki-duk è completamente onesto con noi? Non più di
quanto ciascuno lo sia con sé stesso. Quant'è vero il dramma? Le lacrime? Lui
stesso ammette di aver pianto la prima volta per esaltare l'effetto drammatico.
Eppure la disperazione "naturale" del regista, ma soprattutto
dell'uomo, è palpabile. Se c'è finzione, è minima, quasi inesistente. Anzi,
serve a rendere le cose ancora più vere.
Arirang -
pezzo tradizionale coreano - diventa così il suo canto di angoscia personalizzato
e di nuovo - come sempre, per tutti - il problema, il sunto, la parola è
"solitudine". E "auto-tortura". Il regista è personaggio, è
persona comune - uno di "loro" - proprio perché parla di sé con sé
stesso, delle sue delusioni, delle sue tristezze, del suo male di vivere
personale e al tempo stesso comune, ordinario e tanto più terribile. La
conclusione è la parodia di un gangster movie con tanto di cattivone stereotipato,
ammazzamenti e finto/vero suicidio. "Ready, action!". BANG.
Oltre il
film e il documentario, “Arirang” è un’opera tanto più grezza quanto più
efficace in cui la vita è sia fonte che materia.
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