sabato 29 novembre 2014

Intervista a Pietro Roversi


Ciao Pietro,
grazie per aver accettato l'intervista. Che ne dici di iniziare parlandoci un po' di te e del tuo lavoro?
Grazie a te dell'opportunità! Un ascolto non va mai dato per scontato e cercherò di meritare l’attenzione accordatami. 
Faccio ricerca medica, più precisamente faccio il biologo strutturale, e anzi, a voler dare più dettaglio ancora, faccio il cristallografo di proteine. Se quindi qualcuno ha una proteina di cui vorrebbe conoscere la forma 3D può venire da me, si faccia sotto e io provo a risolvergliela. E speriamo che non mi ci vogliano 8 anni, come mi successe nel 2003-2010 con la struttura del Fattore I del complemento umano! 
In breve, parto dal gene che codifica per la proteina, lo metto dentro delle cellule che leggendo il gene producono la proteina, la isolo e ci faccio un cristallo. Questo cristallo funziona un po’ come una lente di ingrandimento dato che le proteine anche se sono molecule grandi rimangono pur sempre impossibii da osservare al microscopio ottico (hanno dimensioni attorno al milionesimo di millimetro). Per “vedere” la proteina, mando i raggi X sul cristallo e con le immagini che registro su un rivelatore , ricostruisco la struttura del cristallo e quindi della proteina. Vedendo questo modello in 3D si capiscono molte cose circa la funzione della proteina e per esempio si possono inventare molecule che ne alterino il funzionamento, e magari diventare medicine.


Quando hai cominciato a scrivere poesie? Quali erano i tuoi autori preferiti allora? Come è cambiato nel tempo il tuo approccio alla poesia?

Ho iniziato a scrivere poesie al liceo (alcune in latino, per via del Certamen Catullianum, un concorso di scrittura in latino che si tiene ogni anno a Lazise). Da piccolo amavo Gianni Rodari, le sue filastrocche, i suoi temi bonariamente sovversivi e le sue rime forzate e bislacche. Mia madre citava a memoria da poeti studiati da lei a scuola, alcuni dei quali oggi farebbero rabbrividire molti: Ada Negri, Marino Moretti, Diego Valeri e poi naturalmente Pascoli e Leopardi. Crescendo, leggevo tutto quello che mi capitava tra le mani (ho sempre divorato le antologie scolastiche). Una predilezione per certa poesia che non si prende troppo sul serio mi rimaneva: Cardarelli, Gozzano, Palazzeschi, etc. Ho letto Dante come tutti a scuola, un po’ con l’imbuto e un po’ col cucchiaino. Mi piacevano soprattutto Ariosto (mi ricordo ancora di quando comprai I due volume dell’Orlando Furioso e lo lessi un’estate e mi fece una grande impressione, per la levità, la fantasia, l’invenzione) e Montale, di cui ebbi in regalo il Meridiano Mondadori, e rimane per me una lezione di pulizia e di rilevanza somma. 
Vorrei avere la cultura di Antonio Bux al riguardo, e cerco di colmare le mie lacune, ma di contemporaneo conosco bene e amo soprattutto Cristina Annino e Giuseppe Caracausi. Alcuni testi di Antonio Bux e Giampaolo de Pietro hanno anche quelli una grande forza per me e li rileggo volentieri. Ritorno sempre anche sui miei poeti inglesi americani preferiti (Emily Dickinson, Wallace Stevens, Marianne Moore). Col tempo ho capito che la maggior parte della poesia non mi piace (per dirla con Cristina Annino: “L’intimo non mi va, e il lirico / mi spaventa.”) ma il poco che amo vale tutto il tempo passato a leggere cose meno buone nel tentativo di trovarlo. La poesia per me insomma è il proverbiale letame con la gemma dentro.


Quante lingue conosci? Cosa ti piace di ognuna di queste lingue? In quale modo la lingua influenza la tua poesia?

La poesia buona per me deve essere contemporanea, nel senso di aderire al parlato corrente (con buona pace di avanguardie e classicisti); e l’impatto con le lingue straniere è una sorgente importante dei cambiamenti di una lingua. 
Dopo 20 anni passati all’estero, rispondendo a questa domanda sulle lingue straniere, spendo però innanzitutto qualche parola sulla nostra. L’Italiano ha dentro una storia che comprendo bene, da quella dei miei genitori e dei miei nonni, giù giù nei secoli fino alle sorgenti del latino: per questo è importante per me. Non sopporto però quello che io chiamo l’italiano da tema scolastico, con tutte quelle subordinate che offuscano; la scrittura giornalistica italiana sciatta che mescola pochi fatti e molte opinioni; il burocratichese; e soprattutto il sermone e il discorso cattolico, un vero veleno distillato di anti-senso e sussiego, un uso atroce della lingua, che in un colpo solo non comunica nulla di sensato e non lascia spazio a nient’altro di vero. Poco dell’Italiano che sento parlare in TV vale. Alcuni di questi orrori esistono anche in traduzione ma gli aspetti deteriori delle lingue straniere non ci frustrano mai quanto quelli della nostra. 
Leggo, ascolto, parlo e amo più di tutto l’inglese, per il suo lessico sterminato (circa sei volte più ampio dell’italiano) che consente un’accuratezza estrema, quando la si voglia; e per l’assenza quasi assoluta del genere, il che permette di essere assai ambigui, quando lo si voglia. Esempio: “My friend is visiting from Italy. They arrived last night and they’ll stay until Monday.” dove l’assenza di maschile/femminile e l’uso estremo del pronome plurale per riferirsi a un nome singolare, lasciano in ombra il sesso di questo amico/a in visita. L’inglese insomma è una lingua in cui chi parla può dire quello che vuole come vuole, senza cozzare contro troppa restrizione grammaticale o sintattica. L’inglese è una lingua in cui chi parla ha potere quasi assoluto su quel che dice. Del francese, che leggo senza grossi problemi ma parlo assai male, amo i suoni, così sofisticati e irriproducibili per me. Lo spagnolo infine lo amo in maniera viscerale, perché ha la familiarità dell’Italiano, eppure mi sorprende costantemente. Un po’ come l’emozione enorme che ci darebbe la scoperta di una vita che non è stata la nostra ma poteva chiaramente esserlo. Lo trovo anche di un’eleganza commovente, ancora una volta per via che mi ricorda un Italiano altro, forse ottocentesco, magari futuro.

Ci racconti un po' delle tue esperienze di pubblicazione cartacea e su Internet? Dove pubblichi le tue poesie? Sei in contatto con delle realtà virtuali stimolanti? 
 
Mauro Ferrari mi propose di pubblicare il primo libro, uscito con lui a Puntoacapo nel 2010. Fu un’occasione di cui gli sono grato e che non mi lasciai sfuggire, ma da allora ho deciso che non voglio più contribuire alle spese del libro pur di pubblicare. Piuttosto mi tengo il manoscritto per me: in venticinque anni di scrittura, contro i due libri pubblicati, ne ho cinque completi ancora nel cassetto. Voglio un editore che prenda il rischio e investa in un libro, anche perché è una garanzia che si darà da fare per
promuoverne la diffusione. In tal senso, quest’anno ho avuto la splendida fortuna di incappare in Piera Mattei a Gattomerlino Superstripes, che non mi ha chiesto un centesimo e ha prodotto un librino di veste grafica impeccabile colle mie poesie del 2012-2013. Quanto a Internet, metto i miei testi su Facebook per i miei amici, e mettevo tutto quello che scrivevo (salvo poi cancellare I testi che uscivano in libro) su http://www.scrivere.it, ma hanno iniziato a censurarmi pesantemente, ed è un peccato.


Nei tuoi componimenti, la lingua è scientifica, precisa, si vuole oggettiva mentre sviscera l'umano e la sua fallibilità. La direzione del discorso è data dal gioco di parole arguto basato sulle combinazioni lessicali, sulle assonanze, sulle vicinanze semantiche (inevitabile l'accostamento al wit dei poeti metafisici inglesi.) Spesso questa svolta semantico-argomentativa è realizzata nell'enjambement.
Un altro aspetto che mi preme è la corporeità, la descrizione puntigliosa dei gesti, in breve, l'immagine concreta che realizza l'immaterialità poetica (una contraddizione in termini!) Di solito come nascono le tue poesie e quanto ti richiede il lavoro di limatura?

Hai ragione a dire che i miei testi sono corporei, è perché sono uno scienziato, e il linguaggio che si rivolge a sé stesso per me è una soglia che non porta da nessuna parte. La mia poesia vuole il mondo dentro. Il tuo commento mi ricorda anche quello che ne ha scritto Nicola Gardini : nella sua nota critica alla mia poesia apparsa nell’Antologia “Poesia in Piemonte e Valle d'Aosta“ (Puntoacapo, 2012), lui dice che c’è molta statica nei miei testi e che però sono ginnici. E anche John Donne è un paragone che mi emoziona, non perché ne sia degno ma perché amo la poesia come la sua, con dentro idee, discorso. Quanto al gioco di parole, e ai trucchi che tu menzioni, sono in parte il frutto della constatazione tragicomica che arrivato alla mezza età, mi pare potrei far fronte alla maggior parte dei dilemmi della vita facendo ricorso a proverbi o luoghi comuni. Ma gli stessi aspetti del mio linguaggio assolvono anche funzione manipolativa, perché in poesia si ha una chance che non molte altre forme di comunicazione offrono (a parte il romanzo giallo e l’enigmistica), quella di attirare il lettore in una trappola lavorando sulle associazioni di idee inevitabili, sul pensiero debole perché trito, su quel che l’orecchio si aspetta mentre il cervello dorme. E io provo a scrivere testi che tirano il tappeto da sotto le scarpe al lettore. Perché quando si tratta di pensiero, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Paradossalmente spero che il mio uso del banale il consueto lo stranoto possa svuotarli del valore che vien loro attribuito dal lettore senza che ne sia consapevole. Insomma mi piace creare inciampi per emancipare. Me stesso prima di tutto!

Un testo mio nasce in genere da qualcosa che sento dire da altri, oppure da una frase che mi arriva in testa di notte. In genere un testo è pronto in meno di un’ora. Poi il giorno dopo lo rileggo e lo taglio e lo riduco all’essenziale. Rari oggigiorno i testi che hanno richiesto lavoro più lungo (un tempo sì).


Vorrei concludere l'intervista chiedendoti di condividere con me e i lettori del blog due poesie in italiano che credi siano particolarmente rappresentative del tuo stile.

Ai potenti, al destino
Chi può
vieta a
chi non. Questi ultimi
saranno i primi
Zeta. A differenza
di ciò,
chi non sa
chiede a
chi. I quali senza
dubbio rispondono.


Io seguo
un metodo scorretto,
moltiplico pani per pesci, lancio monete roventi
dal tetto al marciapiede. Ribéllati
anche tu se ci riesci,
dico al mondo bambino. Elévati
a qualche potenza, pianta
un casino.


1315 C
Quando ho visto il calendario
dei pompieri,
ho pensato ad uno
degli imbianchini. Patinato,
antartico, i pinguini,
venderebbe coi fabbri
e gli infermieri,
unici veri esperti del calor
e.

Ringraziandoti ancora per il tuo tempo, ti saluto lasciando ai lettori qualche link che ti riguarda:



 

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mercoledì 8 ottobre 2014

Interview with Batsceba Hardy

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Hi Batsceba,

First of all, thank you for agreeing to this interview.

My first question is about your artist name. Why did you choose Batsceba Hardy as your official name? Is it just the homage of a passionate reader to Far From the Madding Crowd and its author or do you sort of identify with Hardy's character?

Damn, I never answered this question! However, I try to please you, so i tell you something: of course, the reference to Far from the madding crowd is glaring. For the rest I keep my secret, I can only add that Batsceba Hardy is a very singular name, unique in the world. I should copyright it ;)

You define yourself an “artist of the Irreality” who “lives and will only live in the net”, currently residing in Berlin, although “she could be anywhere”. You also write “I'm a photographer of the wait. I don't look for shots. I find them in the pauses.”

I'm utterly fascinated by your work. It seems to me that your method essentially relies on hiding, revealing and revealing through hiding. Very often, when looking at your photos, we are well aware of the presence of the artist even if she doesn't appear in the picture. That is, the hidden artist is revealed through her unique vision while revealing to us what she is seeing. Sometimes what we are shown of the artist is her vague reflection in a glass surface, implying her wish not to be seen and to be seen at the same time. This is all extremely intriguing. How would you explain these two opposite tendencies?

Thank You! You have carefully analyzed my work, I can only add this:

"it is joy to be hidden and disaster not to be found" (D.W. Winnicott)

Anyway, "artist" of the Irreality, means: to be able to stand outside, beyond. Living perpetually in the interspaces, those that can be caught by the lens or by the words. having no borders, obligations. In many of my writings I speak of invisibility, transparency. And also in my photographic works I speak of empty and full. Of absence. Clearer?

I love that quality of meaningful immediacy pervading your shots of people in bars, in the metro or just strolling the city. No sequence of words could narrate reality better than such lively portraits. When did you start taking this kind of pictures? Were you influenced by other photographers?


I started taking street photos in Berlin, trying to be in the mood with the city and its inhabitants. What interested me was the sadness and -at the same time- the feeling of freedom, of diversity, that you can experience in Berlin. As always I'm driven by the desire to retell reality, and so I do it taking photographs...

Uhm... Many. Man Ray, Ansel Adams, Urs Lüthi, Cecil Beaton, Vivian Maier, Robert Doisneau, Diane Arbus, Weegee, René Groebli, André Kertész, Helen Levitt, Elliott Erwitt, Alfred Eisenstaedt, Henri Cartier-Bresson, Richard Avedon, Yuri Bonder...
The world is full of good eyes.

Do you already have an idea of the final result when beginning to work on a collage or you just start experimenting? What software products do you utilize?

When I start a project, I always have an idea of what I want to achieve. Every shot is aimed at my current project. Randomness interests me, but is something that is in a corner, maybe the flame that kindles the idea. 

In any case, I never stop to experiment!
I call my “montage”: "combi-photography". It's a superimposition of photograms (two or more), as in analog photography. Fusion of forms and colours - reality and individuality - through a synesthetic perspective (Photoshop)

In some of my work I worked with the program Comic Life, creating empty paper page on which to paste and assemble the photograms previously
extrapolated, exactly as they used to do in the analogue studio.
A real use of the virtual.

What camera do you use?

Niki Ray (Nikon D7000)

Blue (Olimpus u9000,S9000)

Daniel (Nokia C5)

and others.... CASIO EX-Z110 - Olympus OM1 ....(analogic)


I am not a “traditional” photographer, I believe that the means are not so important, after all ... and I don't have so much money to buy what I'd like.

So I dream of a dark room, a study, one Hasselblad, three Laica, a series of Polaroid, and more.

Tell us a bit about your books (available here)
Do you think they share some themes? How would you define your writing style?

I don't stick to genres, I like to tell stories in different ways, but I believe there is always a certain irrationality in my writings. I defined my way of writing imaginary realism.

What do you think is typical of Berlin or of people from Berlin? Is there something you're especially fond of about Berlin?
I can no longer talk of Berlin. Everybody talks about this city... I think it's a wounded city, its sidewalks carry the memories of these wounds: the signs of the wall and the burnished labels with the names of the deportees of Nazism.

I guess it's like me: tristallegra (sad&happy)

In this city you can find everything, from the man with the Green parrot on his shoulder, to the guys walking around with sheep, from the girl with the pink pig on a leash to the elegant gentleman who goes on an electric skate. And then there is the sky, always in motion, without borders. The sky above Berlin.

Thanks again for your time, Batsceba!



Other links on Batsceba Hardy:

Official website

Deviantart

Her blog on Altervista

Her profile on PhotoVogue

 

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mercoledì 1 ottobre 2014

LIBRI A MOLLO: Presentazione di "La ferocia" di Nicola Lagioia


Martedì 30 settembre 2014Ultimo appuntamento di Libri a Mollo con la presentazione del nuovo libro di Nicola Lagioia, “La ferocia”, edito da Einaudi.


Carmelo Calì, ideatore e promotore della rassegna, si dice orgoglioso di chiudere con Lagioia questo ciclo di incontri.
Secondo Giordano Meacci, moderatore dell'evento, Lagioia “cambia scientemente voce” e sceglie di adottare con questo libro la terza persona per “raccontare la parte nera” dell'Uomo con la narrazione di una vicenda familiare.
Con rigore filologico Meacci ci parla di un'accezione meno conosciuta del sostantivo “feroce” che starebbe per “spavaldo, arrogante, fiero”, come lo si ritrova in Boccaccio. Questa quindi la “ferocia” che contraddistingue la Clara Salvemini del libro, nelle parole di Meacci, una “Mickey Sabbath filtrata da David Lynch”.
Inoltre, il termine ricorrerebbe in momenti importanti del libro, in cui rispettivamente si parlerebbe di “ferocia degli occhi”, “ferocia del popolo del sud” e del personaggio di Annamaria che sente già feroce la bambina nel suo ventre.
Degne di nota sarebbero anche “le parentetiche” di un testo che nell'affrontare l'enormità del Male si conferma un'opera d'arte vera.


Lagioia ci rivela di aver lavorato al libro per quattro anni e mezzo, un lasso di tempo in cui effettivamente la realtà è cambiata, “l'aria intorno a noi si è incattivita” e “la crisi è arrivata nel tinello domestico”: “la ferocia” sarebbe allora “il clima emotivo che circonda il romanzo”, secondo l'autore “uno stato di natura da cui crediamo di esserci emancipati e che ci viene a riprendere nei momenti di difficoltà”.
Con “La ferocia” l'autore fa anche i conti con la sua terra d'origine, la Puglia, che percepisce lontana e vicina al contempo ogni volta che vi fa ritorno. In questo senso, il romanzo sarebbe anche espressione di “una ferita con cui bisogna imparare a dialogare”.

Incuriosito da questa presentazione? Puoi acquistare il libro qui.

sabato 27 settembre 2014

LIBRI A MOLLO: Presentazione di "Antropometria" e "Il giorno che diventammo umani" di Paolo Zardi

Venerdì 26 settembre 2014 – Sono due i libri di Paolo Zardi - “Antropometria” e “Il giorno che diventammo umani” - presentati all'ultimo incontro di Libri a mollo al Chioschetto di Ponte Milvio.
Graziano dell'Anna, moderatore dell'evento, ha parlato della grande risonanza che ha avuto sui social network una foto di Paolo Bonolis che leggeva “Il giorno che diventammo umani” e si è augurato di vedere sempre più vip che leggono nella speranza che segnali di questo tipo risollevino l'editoria da questo momento di grande crisi per l'editoria.
Paolo Bonolis, ospite d'eccezione, ha spiegato che il suo interesse per questi libri nasce dalla capacità di Zardi di 'cogliere frammenti in superficie dell'animo umano che cambiano a seconda della luce che impatta' su questi e di raccontare 'sensazioni in un breve tratto di racconto'. I racconti di Zardi sono 'forti e ironici' e sanno 'leggere la realtà nella sua drammaticità e nella sua natura grottesca'. La bravura dell'autore si vedrebbe anche nella plasticità della scrittura che permette al lettore di realizzare l'identificazione anche con un personaggio privo di nome.
Inoltre, secondo Bonolis, la nostra è forse 'un'epoca di eccessiva velocità fuori dallo spazio e dal tempo' dominata da Internet. Abituati all'immediatezza dell'informazione, l'intervallo di tempo necessario per leggere un libro finisce per sembrarci troppo lungo.
Per Dell'Anna i testi di Zardi trattano di 'un'umanità minuta' e pongono l'essere umano al centro della narrazione, come tutta la grande letteratura, da quella classica alla più recente. È poi il ricorso al grottesco e a elementi anomali che caratterizza l'opera dell'autore.
Per Zardi essere uno scrittore significa prima di tutto avere uno sguardo diverso che sappia rubare a piene mani dalla realtà che lo circonda. Secondo l'autore, 'la letteratura è una forma di conoscenza' che 'si occupa di cose di cui non si può dare una misura'. Così come per tanti mostri sacri, i due temi principali della sua opera sarebbero 'l'amore e la morte'.

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mercoledì 24 settembre 2014

LIBRI A MOLLO: "Raccontare Roma", ovvero i libri della Palombi Editori

Martedì 23 settembre - Un'altra bella serata in compagnia di Palombi Editori e dei suoi autori per l'incontro “Raccontare Roma” in occasione della rassegna “Libri a mollo”. 

Ha avviato il dibattito Sergio Bonetti, moderatore dell'evento, ringraziando Carmelo Calì, 'libraio come non se ne trovano più' e i ragazzi del Chioschetto, un 'luogo incredibile' che dimostra come la cultura non debba necessariamente 'essere pesante ed elitaria'.
Palombi Editori, specializzata in volumi su Roma, ha anche realizzato cataloghi di mostre importanti. Fondata nel 1914 dai fratelli Nello e Francesco formatisi a Lipsia, 'vertice delle arti tipografiche', la casa editrice ha praticamente 'fatto un secolo'.

  Claudia Monteiro de Castro, autrice di “La mejo Roma”, nasce in Brasile ma si stabilisce a Roma dodici anni fa, abbastanza per vedere 'con occhi da romana' la città eterna ma con un po' meno di quella pigrizia del romano che 'ha tutta la vita per vedere Roma'.

 
Carmen Rotunno ha invece pubblicato per Palombi Editori “Roma è anche una città per bambini”, “Roma quando piove” e “Roma spendere bene”. Nei suoi libri, l'autrice propone al lettore una Roma insolita e più 'internazionale' che non sia la solita 'pizza e Colosseo'. I luoghi che menziona - 'provati, rivisti e fotografati' – sono 'realtà interessanti', 'indirizzi frivoli ma anche culturali' che 'l'hanno catturata'.

 
Per Flaminio di Biagi, autore di “La Roma di Roma città aperta”, un testo su 'un film fondamentale' ambientato in un 'periodo storico importantissimo', il personaggio del prete interpretato da Fabrizi nel film sarebbe la combinazione di ben tre personaggi storici realmente esistiti: Don Morosini, Don Pappagallo e Don Pierluigi Occelli, chiamato 'Don Pietro', prete partigiano che organizzò la difesa di Montagnola dai tedeschi.


Le chiavi per aprire 99 luoghi segreti di Roma” è invece opera dello storico dell'arte Costantino D'Orazio, venuto a contatto per la prima volta con la Palombi grazie a un progetto poi diventato realtà di pubblicare delle miniguide sulle periferie romane nel tentativo di rilanciare dei quartieri che 'i romani non avevano mai capito'. Probabilmente il libro che ha ispirato il personaggio di Pasotti in “La grande bellezza” , “Le chiavi” è secondo D'orazio parte del 'grande libro' della Palombi, editore di grande coerenza che offre una 'visione trasversale di questa città.'

 
Francesco Palombi ha infine sottolineato che molte di queste iniziative sono state proposte alla casa editrice dagli autori e che questi libri riescono nel difficile compito di parlare di una città di cui si è già scritto tanto grazie a una miscela di  'passione' e  'professionalità.'

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venerdì 19 settembre 2014

LIBRI A MOLLO: Presentazione di "Mette pioggia" di Gianni Tetti

Nuovo appuntamento del 18 settembre di ‘Libri a Mollo’ con la presentazione\reading di ‘Mette pioggia’ di Gianni Tetti, edito dalla Neo Edizioni. Sono intervenuti l'autore, Francesco Coscioni, Carlo Sperduti e Nicola Bonimelli.

Il dibattito è stato aperto da Francesco Coscioni, titolare della Neo Edizioni, casa editrice fieramente indipendente il cui obiettivo è sempre stato in sei anni di attività quello di scoprire talenti nascosti. Di Gianni Tetti – secondo la rivista ‘Il Mucchio’ “uno dei cinque autori da tenere d’occhio” – La Neo ha pubblicato anche la raccolta di racconti ‘I cani là fuori’.

Per Coscioni, la presenza di un “nucleo in cui palpita il male”, il legame profondo dei personaggi con la terra  e l’onnipresenza degli animali sono tratti distintivi di  ‘Mette pioggia’, “libro corale” in cui si stilisticamente si avverte l’esperienza di Tetti come sceneggiatore. 

Nelle parole di Tetti, l’animale è il naturale “contrappunto all’essere umano”, lui stesso nient'altro che un animale e l’uomo è in effetti “preda dei proprio istinti” tanto più “è a contatto con la terra”. Fondamentale nella stesura del libro è stato trovare il ritmo giusto, suggerito all’autore dal ‘Bolero’ di Ravel, che proprio come ‘Mette pioggia’, inizia in sordina per concludere in un imponente trionfo.

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martedì 16 settembre 2014

LIBRI A MOLLO: Presentazione di "Come un respiro interrotto" di Fabio Stassi

Si è tenuta ieri sera alle 19 al Chioschetto di Ponte Milvio la presentazione dell'ultimo libro di Fabio Stassi “Come un respiro interrotto” all'interno della rassegna letteraria “Libri a mollo” patrocinata dal Municipio XV di Roma Capitale.

Dopo la lettura di una brano che ha tenuto tutti con il fiato sospeso, ha preso la parola Nicola Lagioia, uno dei due moderatori dell'evento, secondo cui questo libro è per Stassi - “l'antitesi dello scrittore italiano ombelicale” - un ritorno a casa. Infatti, dopo aver parlato di Sicilia, Sudamerica e Stati Uniti, lo scrittore ambienta “Come un respiro interrotto” nella Città Eterna, di cui mette in evidenza la profonda trasformazione urbana e sociale che l'ha investita negli ultimi cinquant'anni. Per Lagioia, l'ultimo libro di Stassi è un'ode appassionata al “meticciato salvifico”: Sole(dad), la protagonista, cantante mai registrata che si esibisce nei locali romani, nasce infatti da famiglia siciliana traferitasi in Uruguay.

Giordano Meacci rintraccia invece nell'idea della “voce” la chiave di volta del romanzo e definisce i 26 capitoliche compongono il libro “26 forme di dispnea iterata”.

Altra questione su cui Meacci pone l'accento è l'“imperfezione” jazzistica fatta di “balbettii e imprecisioni” che Stassi sembra voler ricreare nella sua scrittura.

Fabio Stassi avalla quest'ipotesi e ci spiega che tutti i suoi libri in fondo parlano di assenze e della sensazione di aver perso qualcosa. In “Come un respiro interrotto” la sua aspirazione era descrivere “la voce dietro il sipario” di Soledad. In questo senso, il libro, un tentativo di scrivere jazzisticamente “fuori tempo”, è un “fallimento grande” sulla falsariga di quel desiderio di Coltrane di dare all'ascoltare l'impressione “di mettere il piede nel vano vuoto di un ascensore”.

Importante per Stassi è anche il tema della famiglia, una volta custode del culto delle storie e della musica, purtroppo destinata alla disintegrazione in questa Roma trasformatasi gradualmente in città per soli ricchi.



Per i prossimi appuntamenti con “Libri a mollo”: https://www.facebook.com/libriamollo

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lunedì 8 settembre 2014

Interview with Pietro Roversi

First of all, thank you for agreeing to this interview. How about starting it off by telling us a bit about yourself and your job?

Thank you for this opportunity! I was born in Novara (Italy) by accident, in 1968, my family are from Modena, and when I was 6 we moved to Verona, where I grew up. I went to University in Milano and after my chemistry degree I decided I had no interest in making new molecules, rather I wanted to look at existing ones. This, and a passion for living cells, made me choose protein science. During my doctorate I moved to England, where protein structural science was born in the XX century, and here I have become a structural biologist. Mostly, I work as a protein chemist and an X-ray crystallographer: we isolate proteins and make them into crystals (think of these crystals as a magnifying lenses for the proteins they contain). We then shine X-rays on the crystals and interpret those X-ray images to obtain 3D models of the proteins. These 3D models inform on the functions of the proteins and assists drug design. At the moment we are trying to understand how UGGT (the enzyme responsible for the quality control of all proteins secreted by eukaryotic cells) can do its job at all: imagine a single molecule in charge of checking on hundreds of differently shaped molecules, and being able to flag them for retention in the cell if they are incorrectly folded. A molecular mystery! That, or the current model about UGGT needs improving. My colleagues and I think we should find a drug to inhibit UGGT in individuals suffering from certain genetic diseases. We hope to be able to prove this idea right or wrong.

At what age did you start writing poetry ? What were your favourite poets then? How has your poetry evolved over the years?
I started writing poetry around the age of 14. My favourite poets then were Catullus, Ariosto, Gianni Rodari, Dino Campana and Eugenio Montale. All I wrote till the age of 21 has either been lost or destroyed (although I suppose a copy of some latin hexameters of mine may survive among the records of the 1986 Certamen catullianum (a yearly latin writing contest for schoolchildren) in their archives in Lazise).

The first surviving manuscript of mine is a book I wrote in 1989-1991, still unpublished, although the poems are online – together with the entirety of my unpublished texts to date. Whenever I publish a book I remove the poems from the web, but the rest is all there: individual texts online do not give a true sense of the manuscript they belong to, but they can still be appreciated individually before they appear in a printed book.

A second book of poetry, also unpublished, was written during the years 1993-1994: at the time, I was serving as a conscientious objector in a community hosting a dozen of psychiatric patients in Sesto San Giovanni, between Monza and Milano. Earlier in 2014 I took some of those poems out of the drawer and submitted them to a small poetry competition in Rimini, and I have been awarded the first prize: http://farapoesia.blogspot.co.uk/2014/07/vincitori-del-concorso-in-sana-mente.html

Since moving to England, I developed a taste for American poetry (Marianne Moore, Emily Dickinson, Wallace Stevens), while among italian poets I came to appreciate Aldo Palazzeschi, Giampiero Bona, Guido Gozzano, Giorgio Caproni, Bartolo Cattafi, and Toti Scialoja. Perhaps not surprisingly. Alongside these readings, my poetry has become increasingly sound- and rhyme-based. Among living italian I especially love Cristina Annino and Giuseppe Caracausi. From them I am learning to cut out the inessential and the redundant, and to trust my own text without worrying too much about the reception on the part of the reader. My recent texts have benefitted from their help and example.

How many languages can you speak? What do you like about each one? How does language affect your poetry?
I can speak Italian of course, although these days I sometimes come up with rather anglicised turns of phrase. I like Italian when it is terse and concise, because of its simplicity. Its roots stretching back to Latin carry for me the past into the present. My English can be good at times: I love this language’s immense lexicon, which allows its speakers to be very accurate if they choose to be so; and the almost complete absence of gender in it, which in turn allows vagueness when needed. My Spanish is basic but I find that it stirs very strong emotions in me, the way what is familiar and yet exotic at the same time does. My French sounds horrendous, and yet I admire its subtle vocalic sounds I cannot reproduce, and its ability to pass for sophisticated even when it’s rather coarse. I am fortunate enough to have ready many great books written in one or another of these languages, and it gives me a great joy to be able to read something very good in the original. All these languages affect my poetry because they remind me that a poem can only be justified if it is the best (if not the only) way of saying what it says. So other languages I know in the background serve as it were as a selection/control ground for my texts in italian. Last but not least, I think that today the future of all languages is in their coevolution and reciprocal contamination. I am especially excited about what is happening and will happen to italian in the wake of the more recent waves of immigration to Italy.


Tell us a bit about the two poetry books of yours that have been published and your electronically available poems. What poetry websites do you regularly publish your poems on? Are you in touch with stimulating online communities?
Una crisi creativa” (Puntoacapo, 2010) is – as the title suggests – the result of a year of furious writing, which I would liken now to the bursting of a suppurating wound or an infected spot. It contains rough, coarse, inflated writing, with the rage and the exhilaration of middle age in it. Its texts went through none of the painstaking polishing I used to carry out on my writings before. Perhaps in spite of this, or perhaps precisely because writing the book was such a liberating experience, when I finished it, for the first time in my life I thought I should try and publish it. I had always taken writing seriously but I never craved readers; with these poems I did, and I remain very grateful to Mauro Ferrari who gave me the opportunity to find some. I am still rather inclined to forgive the book’s weaknesses, although now that I think I may have readers, I have become much more strict with myself when it comes to working on a poem.


My second published book “Vamosaver” (Gattomerlino/Superstripes, 2014) was written during my 2012-2103 stay in the Basaue Country. It retains the irony and the invective of the first book in places, but it also relishes shorter, more controlled forms, and it is more experimental in its attempt to grapple with the language, with foreign languages darting to the foreground from time to time where the italian needs them. I am not sure if I can continue writing like this but I am very pleased with the editing Piera Mattei did on the book, with the watercolour that my friend and colleague Daniel Badia Martinez drew for it, and with the many memories that these texts capture and I hope reverberate around.

For my online publishing, I have chosen a low-brow, open-to-all website, http://pietroroversi.scrivere.info/. They maintain my texts in good order and they provide space for my readers to comment. I can link to those pages when I need it. While the people in charge of the website hold very different views on poetry to mine, and we have often clashed, I enjoy the company of many other people who publish their writing in there, and I have found as many good writers among that community as in the official world of italian published poetry. In some sense the website is below the radar of the professional literary critics, so I am really hiding my texts in full view, which I enjoy: it helps me focussing on the writing without taking myself too seriously. I regularly put my texts on Facebook as Notes, for my friends to read. I have occasionally published texts in online poetry magazines, poetry blogs or friend’s webpages.


 In your poems, a scientific, supposedly objective language is used to dissect humakind and its fallibility. The discourse is steered by witty puns based on collocations, assonances and semantic affinities (I can't help but think of the metaphysical poets and their notion of wit.) Often such a semantic and thematic turn is realized in the enjambement. Another relevant matter is the bodily dimension and the meticulous description of acts, in short, concrete imagery realizing poetical immateriality (a contradiction in terms!)
What do you start with when writing poems and how long does it take you for the polishing work?


I am especially fond of John Donne’s poetry, so I am delighted (if rather humbled) by the comparison with the metaphysical poets. And I certainly strive for texts that carry or embody the complexity and the ambiguity of the world, including human contradictions. In this context, the language for me becomes the network that keeps things together. Hence perhaps the interconnecting sounds and the skeleton of connected words that often traverses the text, as you point out. References to different parts of the same semantic field and broken down chains of associations serve the same purpose. In a nutshell, good poetry for me must contain hidden persuasive devices, and anything giving cohesion to the text gives it plausibility and helps manipulating the attention of the reader.

As to their genesis, the poems are born in a number of ways, but two of the most frequent ones seem to be: I hear somebody speaking a phrase or sentence, and then I feel compelled to write it down, stealing it, I suppose; or when a syllable presents itself repeated in a sentence, either mine ot somebody else’s, and it triggers more instances of itself to follow. The poem then unfolds or wraps around these germs. A single word seldom calls for a poem and indeed I am not a great fan of single words in isolation. I especially hate verse without verbs and just nouns stated as if they were magical or evocative or “poetic”. We do not speak like this in everyday life. I am more interested in grey, neutral parts of speech, stock phrases, proverbs, adages, the commonplace, the banal. Perhaps in my middle age so much of my thinking is either prejudicial or stereotypical, that these parts of the language suit me best.

As to the work on a text after its genesis, most poems are finished in half an hour or so. Others take longer, days perhaps, but I do not work on them all the time. I leave them, forget them for a little while, then go back and delete or add and fix until I do not know what to do anymore or they look the way they should. Deep down, I almost always know the weaker bits, but it is not always easy to find the courage to cut them or know how to improve things. Sometimes letting somebody else edit a text of mine or give me their opinion on it has helped me immensely, although there are parts that I would never accept to change, because they are what they should be (typically because of their sound, the way they scan, or their interrelation to the rest) and I do not care if somebody else thinks otherwise.

I'd like to conclude this interview asking you to share two poems of yours with me and the readers of this blog so that they can have a sample of your work.


 Dates for my diary


During the Napoleonic wars

Britain was isolated

from mainland Europe:

people became collectors

of seaweed and root vegetables,

and this tradition

seems to have continued

well beyond the scope

of that need. Laver bread, sea kale, black

salsify are just examples of near-inedibles

that could feed the starved

in a time of dearth. Back then,

that kind of knack for tasteless hope could be excused.

But what a palaver now to insist that it still be of use.



On another matter, you teach, you would not

spell "lose" "loose",

but I wouldn't put past you the belief

that the Barnacle Goose

was born from a mussel on the beach, such

is your virginity in all matters

exact (microbiology, anatomy or humanist

church-going are examples), not to mention

any fact to do with movement in space, or with the sense

of what makes one handsome and what does not.



Not that it matters much. Much to my chagrin,

the Key of Joy may be the sin of disobedience, but

I'll stick with the dates for my diary,

with the compere on the show, as I want his

company, companionship, comradeship

beyond compare. Like in the old days,

this is a case of

kelp for ash, and cash for kelp.

One helps oneself to what is in one's dish.

One learns to relish help when one is famished.



The funny thing is though, all considered:

I am continental. I can shop. I know better.

From now on, I vow to reintroduce

some of the good produce, stop being a schlepper.



[28082009]



Swag, loot & contraband


Look at how the shiny orange leaves

tumble down to the floor,

carrot cake pieces that cavort

in the stomach! I ate my slice and more.



If hunting pink is red,

is a hunting pavillion

vermillion? As if I had qualms

about appropriating the verse in a million

that fell off the back of a lorry.

I stole these from you, sorry, Juliet!

And yet and yet and yet ...



[31102009]

Thank you again for your time, Pietro, and until next time, goodbye!


Other links on Pietro Roversi and his work:


http://www.pietroroversi.org/
 

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